“Servire vuol dire rispondere alla necessità”

Credo che questo sia stato per molti di noi uno dei primi concetti che abbiamo sentito tra quelli che riguardano il servizio. Rispondere alla necessità comporta come prima cosa di guardarci intorno per cogliere che cosa è necessario nell’ambiente in cui siamo. Questo è dunque il primo passo che ci porta fuori da noi stessi, dalla concentrazione sui nostri bisogni verso la scoperta di quelli altrui. È un passo importante, che segna l’inizio di un processo di espansione del raggio di attenzione e di ampliamento della nostra gamma di risposta alle contingenze che la vita ci pone.

A questo primo spostamento del focus verso l’esterno ne seguono altri, mentre si intensifica gradualmente la nostra capacità di percezione dei bisogni di chi ci sta intorno, che si tratti di persone, di gruppi, di situazioni, di creature appartenenti al regno animale o vegetale.

Così si fanno più preciso l’ascolto, più lungimirante lo sguardo e più acute le sensazioni in genere. Attraverso la percezione delle necessità altrui, si estende il campo della consapevolezza e si espande corrispondentemente il nostro spazio interno, quello della nostra coscienza.

Servire la necessità che intravvediamo può comportare un’azione di qualunque tipo e livello, da quella sul piano dell’intervento concreto, a quella del supporto emotivo, fino a quella dell’azione sottile e invisibile, ma non per questo meno efficace.

In ogni caso si tratta sempre di un atto di abnegazione, cioè del mettere a disposizione qualcosa di noi stessi – tempo, energia, capacità- per portare dei benefici agli esseri che ci circondano.

Quello che avviene è perciò un movimento centrifugo, da noi verso l’esterno: qualcosa che ci appartiene, fondamentalmente la nostra energia vitale, viene proiettata su oggetti esterni da cui abbiamo colto un segnale di stato di necessità.

Man mano che impariamo a rispondere in modo intelligente ai richiami più o meno espliciti che ci provengono dall’ambiente, si sviluppa rapidamente anche il nostro apparato percettivo, la nostra sensibilità, la capacità di discriminare e di riconoscere ciò che è più importante da ciò che lo è meno, ciò che è davvero urgente rispetto a ciò che non lo è. E allo stesso tempo attraverso l’esercizio si amplia la gamma delle nostre risposte attive, stimolando così l’espressione di risorse che erano rimaste solo potenziali fino al momento in cui la richiesta esterna non le ha attivate.

Perciò la necessità ha un grande potere evolutivo su chi si apre a percepirla e a rispondervi.

Va però messo in evidenza anche un altro aspetto: l’allenamento a rispondere alla necessità diventa col tempo un atteggiamento spontaneo e perfino automatico. La necessità diventa cioè un “motore” che ci stimola all’azione e ci fa sentire utili nel mondo in cui viviamo.

A lungo andare ciò può portare a un atteggiamento esistenziale tendenzialmente estrovertito, in cui è l’ambiente, con le sue necessità, che determina la nostra azione. Si crea così un progressivo allontanamento da noi stessi e dal nucleo interno che racchiude quell’aspirazione profonda e quella nota che ci caratterizzano e che fanno di noi l’essere che siamo. La nostra essenza chiede espressione con altrettanta forza delle necessità dell’ambiente.

Non sarebbe né giusto, né saggio, respingere le nostre istanze individuali perché la necessità – quella individuale, di gruppo, sociale – fa pressione su di noi. Ove ciò accadesse per un tempo prolungato, si genererebbe una perdita di energia e di entusiasmo, uno spegnimento di quella favilla interiore che ci permette di sapere chi siamo e come vogliamo manifestarci nel mondo.

Vediamo perciò quanto sia importante che ognuno di noi trovi il proprio punto di equilibrio tra necessità e libertà: si tratta di un punto destinato a cambiare nel tempo, mentre passiamo da una fase all’altra del processo di sviluppo del servitore dentro di noi. Soprattutto è un processo che richiede auto-osservazione e auto – consapevolezza costanti, seguite dagli aggiustamenti che il momento richiede. Non possiamo continuare a investire tutte le nostre forze in risposta alla necessità a tempo indeterminato, così come dare espressione solo a ciò che sentiamo di voler fare come nostra aspirazione o desiderio diventa a lungo andare un limite. Il primo atteggiamento rischia di esaurire l’entusiasmo e la passione, il secondo ci isola dalla realtà dell’ambiente in cui siamo, rischiando di renderci “solipsistici” e privandoci degli stimoli variegati che lo scambio reciproco tra noi e l’ambiente può offrire.

Azione in risposta alla necessità e azione in risposta ad aspirazione personale si presentano inizialmente come due opposti che vanno sapientemente equilibrati, affinché possano tendere verso un più elevato punto di sintesi e di autorealizzazione.

Se ciò a cui tendiamo è di contribuire in modo intelligente ed utile al Piano evolutivo, teniamo presente che esso ha bisogno sia dell’espletamento di certe funzioni prestabilite che della capacità creativa libera ed autonoma di ognuno di noi.

Va detto anche che il più delle volte è proprio la risposta alla necessità che ci immette sul sentiero del servizio. Credo che in molti possiamo testimoniare che, se non ci fosse arrivata la richiesta di svolgere un compito per un insieme più grande, avremmo continuato a occuparci delle nostre faccende personali.

E allora possiamo distinguere alcune fasi che si susseguono e si intrecciano tra loro all’interno del campo della necessità:

  • Nelle prime esperienze di servizio, rispondere alla necessità fa parte dell’imprescindibile “addestramento” della personalità: infatti ha la funzione di favorire lo spostamento dell’attenzione dai desideri condizionati secondo l’assetto di vita precedente e di promuovere il conseguimento di un certo grado di autodisciplina.
  • Segue lo sviluppo di capacità e competenze inaspettate, che si manifestano grazie all’impegno richiesto dallo svolgimento di un compito necessario all’ambiente e al gruppo. La necessità funge perciò da catalizzatore di nuovi apprendimenti; in particolare lavorare in gruppo ci spinge ad imparare a svolgere funzioni che non avremmo mai pensato di poter svolgere. Per inciso, ciò che impariamo a fare in un’incarnazione, diventa una predisposizione in un’incarnazione successiva: è così che si spiega perché i Servitori realizzati, che tanto ammiriamo, esprimano molto spesso capacità e talenti in vari campi diversi.
  • La necessità è anche stimolo per imparare a collaborare col progetto di gruppo; essa fornisce perciò l’occasione di diventare sensibili a ciò che si muove in un campo più ampio che non quello individuale.
  • La necessità come iniziale strumento di contatto con il nostro compito più individuale e profondo, che spesso si rivela a noi sotto forma di “sprazzi di luce” che cogliamo attraverso la risposta attiva all’ambiente. In questo caso essa funge da chiave per aprire lo scrigno dei nostri talenti più intimi e veri.
  • Viene infine il momento in cui si crea un equilibrio spontaneo tra necessità ed espressione di sé e del proprio compito. Allora la bipolarità che ne deriva diventa molto creativa e vitalizzante. Riconoscere e assecondare la nostra vocazione profonda, ci renderà molto più facile accettare e obbedire ai momenti di necessità, sapendo che questi non ci travolgeranno con le loro urgenze. Mentre attingere spontaneamente al serbatoio interiore delle nostre risorse renderà più bella e vitale la nostra risposta alla necessità.

È così, nella danza reciproca tra necessità e libertà di espressione, che il servitore cresce e matura le sue facoltà creative. È così che la necessità diventa Necessità e ciò che è bene per noi come persone diventa un Bene con effetti molto più vasti.

E ora poniamoci un paio di domande:

Come è in me il rapporto tra necessità e libera espressione di me stesso/a?
Quale dei due poli tendo a privilegiare e come posso equilibrarli in modo più creativo?

Marina Bernardi