Isola delle sirene
Un’altra minaccia si prepara per Ulisse sulla via del ritorno: le Sirene.
Questo episodio, il più allegorico di tutta l’Odissea, vuole indicare questo: Ulisse ha ceduto sì alle fascinazioni di Circe, trascinando nell’abbandono anche i compagni (le sue subpersonalità), ma se in quella occasione è apparso necessariamente “debole” con le Sirene, invece, vuol dimostrare che la sensualità ha solo scalfito la sua tempra e la sua determinazione. Le Sirene ammaliatrici si presentano ad Ulisse mollemente adagiate sul prato della loro isola. Intorno ad ad esse “un gran numero di ossa putride”: testimoniano la fine di quanti sono caduti in tentazione. Perché, con la loro voce, le Sirene incantano e “perdevano chi si faceva incantare”. La loro potentissima seduzione non risparmia nessuno e anche Ulisse ne resterebbe vittima se Circe non gli avesse preannunciato l’irresistibile forza di quel canto al quale il nostro eroe non si sottrae. Egli trae piacere dal canto ma non vi soccombe; le funi con le quali si fa legare alla nave, e quelle, ancor più numerose, che vengono aggiunte quando fuori di sé per l’estasi scongiura l’equipaggio di scioglierlo, sono la rappresentazione simbolica dell’uomo capace di resistere all’attaccamento e al desiderio. Unito assialmente all’albero della nave, metafora del suo Sé, Ulisse si confronta con i veli iridescenti della grande illusione, ne assapora la “voce soave” che adula e lusinga ma non cede all’apparenza della forma e grazie alla sua volontà prosegue.
Isola di Ogigia
Scongiurate le insidie di Scilla e Cariddi (gli opposti che ghermiscono) e sopravvissuto alla tempesta, Ulisse giunge esausto e solo nell’isola di Ogigia. Qui avviene l’incontro con Calipso. Immortale come tutti gli Dei, Calipso, figlia del Sole e sorella di Circe, non abitava sull’Olimpo ma in una caverna fra la rigogliosa vegetazione di ontani, pioppi, cipressi profumati e vite domestica. La bellissima Dea cantava con una dolce voce, tessendo con una spola d’oro. Penelope tesseva, Circe tesseva, Calipso tesseva. Le grandi madri sono, dunque, in Egitto, in Grecia, presso i Maya, tessitrici; e poiché la realtà è opera delle grandi tessitrici, tutta la loro attività rientra nelle azioni femminili determinanti il fato (vedi le tre Parche o Moire). Calipso, la Dea che tesse la tela del destino aveva in passato come simbolo il ragno: tramite il filo che lui stesso secerne e tesse, rappresenta il nesso tra creatura e creatore. Per 7 anni Ulisse rimane con la Dea, assimilando gli insegnamenti appresi da Circe, fino a quando preferì a Calipso e alla promessa dell’immortalità il richiamo di un’altra tessitrice: Penelope. Alla radice di questa prova vi è il significato esoterico che vede il nostro Eroe, la coscienza, alla ricerca della sua realizzazione e della sua Unione con l’Anima (Penelope) ed in Calipso (“Ninfa del Nascondiglio”) una importante fase di ricerca ed esperienza di perfezionamento interiore.
Itaca
Dopo l’ultimo naufragio e l’intermezzo alla misteriosa Corte dei Feaci e di Re Alcinòo, Ulisse approda di notte e dormiente in patria, momento che egli aveva desiderato più di ogni altro e per il quale si era sottoposto ad incredibili prove di resilienza. In quest’ultimo atto che decide il suo destino, tre sono gli eventi fondamentali. Il primo è la lotta contro i Proci. Il secondo è la riunificazione con Penelope ed infine l’incontro con Laerte. La sanguinosa battaglia finale ingaggiata da Ulisse sta a simboleggiare l’eliminazione definitiva della protervia delle sue subpersonalità. Con una strategia di occultamento l’Eroe si nasconde sotto gli stracci di un vecchio mendicante, si lascia insultare celando le sue intenzioni. È interessante notare come questa sorta di mortificazione della personalità anziché infiacchire il senso del proprio io produce, invece, una maggior convinzione nei propri mezzi ed una radicale assertività. Con una deliberata rinuncia alla propria esteriorità, durante la gara dell’arco, sviluppa la forza necessaria per tendere l’arma del sé personale ed incoccare la freccia della volontà. Freccia che giunge al bersaglio attraversando i 12 anelli delle scuri, come 12 sono state le porte o meglio le prove sostenute e superate da Ulisse. Qui appare un singolare simbolismo che correla la balistica alla trascendenza. Una trascendenza “ armata”, in quanto l’arma trascendente per eccellenza è la saetta, la cui direttività ricorda la velocità del pensiero intuitivo che, come un lampo, penetra l’individuo e lo pervade. Ulisse diventa così egli stesso “il Sagittario”, l’eroe trascendente che prima coglie la centralità della sua coscienza, poi uccide la sua personalità ordinaria (i Proci) ed infine si rigenera nel bagno di sangue versato dalle sue parti. L’uomo che ora si presenta a Penelope è un uomo libero dai modelli precedenti che può finalmente congiungersi con la sua parte complementare. La “metà” che lo ha atteso per 20 anni non va interpretata soltanto nel suo aspetto muliebre ma anche come una donna dotata di un’astuzia sottile nell’escogitare l’ingegnoso stratagemma della tela; con una magistrale procedura psicosintetica tesse (identificazione) e disfa (disidentificazione) tenendo sotto scacco i Proci, o porci, che insozzano la sua dimora. Infine, Penelope, va soprattutto colta nella sua dimensione più elevata, superiore, di principio femminile. Ulisse si ricongiunge alla moglie al compimento del diciannovesimo anno e all’inizio del ventesimo anno dalla partenza.
Il luogo di questa riunione è un Naos, piccolo tempio, situato ad un livello superiore rispetto alla terra, che Ulisse aveva costruito ricavando il talamo da un grande ulivo, che è l’albero di Atena, la Sapienza Divina. L’unione divina con Penelope è l’immagine del matrimonio sacro. La definitiva coniugazione degli opposti e la totale integrazione bio-psico-spirituale consentiva ad Ulisse, all’alba del nuovo giorno, di incontrare Laerte, l’immagine archetipica dell’Unità e del ritorno alla “Casa del Padre”.
Ci piace immaginare il “Divino Odisseo”, seduto in riva al mare, il sorriso accennato sulle labbra e lo sguardo immerso nella profondità della sua anima, forse mentre progetta altri viaggi, altre conquiste, o, più probabilmente, in attesa di quella dolce morte che lo restituirà all’infinito. Quell’Infinito che dall’inizio del tempo, Sa, Ama e Vuole.
Articolo di Pasquale Morla
Itaca – poesia di Konstantinos Petrou Kavafis
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
nè nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.