Trovare il mio posto, queste sono le parole fatidiche che sono nel cuore di tutti.
Quest’istanza vale per tutti gli ambiti che nel corso della vita ci troviamo ad attraversare: vale per la famiglia, in cui ogni membro deve individuare il suo giusto posto e funzione (B. Hellinger ha scritto interi trattati su questo tema); vale nella classe scolastica; vale per ogni ambito sociale, dal campo di lavoro, alle varie iniziative di cui ci troviamo a far parte; vale anche per il gruppo attraverso cui scegliamo di svolgere il nostro servizio. Anzi, forse proprio lo spazio del “gruppo d’elezione”, non condizionato dalle necessità ordinarie, tipo quella economica o quella di immagine sociale, è quello in cui, più che in qualunque altro, ci aspettiamo di arrivare a sentirci davvero al nostro posto; anche per via del significato stesso che diamo al servizio, di aprirci la via verso l’anima.
Con il Maestro Tibetano, possiamo riconoscere tre fasi di realizzazione del compito:
- Lavorare con ciò che si presenta, cioè fare quello che per primo ci viene incontro, senza porci troppe domande, ma accogliendo ciò che arriva e utilizzandolo per compiere i primi passi, che hanno come funzione principale l’inserimento nel gruppo. L’accettare di buon grado i compiti che ci vengono proposti serve anche a “svuotare” il lavoro da tutte le motivazioni e aspettative precedenti, che in ogni caso non potrebbero trovare risposta in questo nuovo spazio di vita che è il gruppo.
- Riconoscere la propria nota, cosa che avviene gradualmente, mano a mano che facciamo esperienze di vario tipo e in vari campi. Sperimentare attività nuove a cui non avremmo mai pensato, innanzitutto amplia di molto il campo di conoscenza, e poi potrebbe metterci in contatto con dei talenti nascosti che non avremmo mai sospettato di avere. Attraverso un processo di sperimentazione e di graduale selezione, ci avviciniamo così ai compiti per cui siamo più portati, quelli che più si avvicinano alla nostra nota essenziale.
- Far risuonare con forza la propria nota, una volta scoperta. Questa terza fase comporta una maggiore assunzione di responsabilità personale. Infatti ora sta a noi fare tutto ciò che possiamo affinchè il talento individuale si renda evidente in modo tale da poter essere riconosciuto e utilizzato dal gruppo. Si tratta di trovare il modo di farlo spiccare, senza tuttavia imporsi e restando sempre e comunque disponibili a fare qualunque cosa in caso di necessità.
Se queste tre fasi di individuazione del proprio servizio possono richiedere un certo impegno a livello individuale, possiamo facilmente immaginare cosa succede nel gruppo: infatti qui ognuno e tutti passa e passano per la stessa ricerca, che si attua, come detto sopra, in fasi diverse, in campi diversi e da parte di parecchie persone nello stesso tempo: ne risulta un intreccio di sperimentazioni, di prove, di successi ma anche di delusioni, di gratificazione ma anche di frustrazione.
La vita di gruppo è un alveo multidimensionale e multicolore, in cui le individualità devono sintonizzarsi e cercare continuamente nuovi punti di equilibrio: ognuno è chiamato a esprimere sempre meglio la propria nota, mentre le necessità quotidiane poste dalla vita di gruppo incombono. Ne deriva, come possiamo immaginare, un equilibrio molto dinamico, una fitta rete di scambi e di ri- cambi.
Ognuno, su questa rete, deve impegnarsi a emettere la propria nota in modo che sia percepibile dagli altri e allo stesso tempo ad ascoltare profondamente la nota emessa dal tessuto di gruppo, per far sì che queste due note non siano dissintoniche. Ascolto e osservazione sono anche gli strumenti che permettono di registrare gli “appelli”; questi sono emessi sul piano sottile da ogni posto vacante, così come da tutte quelle attività che sono al momento solo dei potenziali in cerca di qualcuno che dia loro vita manifesta. In passato, quando eravamo meno sensibili alle energie di quanto lo siamo oggi (e ancora ce n’è da imparare!), usavamo il verbo “sgomitare” per indicare il moto in avanti che alcuni facevano più e prima di altri alla ricerca del loro posto.
Oggi abbiamo compreso che nel servizio di gruppo c’è spazio per tutti e che ognuno cerca e trova il proprio giusto posto per risonanza; alcuni procedono in modo più rapido e mirato, altri hanno bisogno di più tempo. Ma prima o poi tutti hanno la possibilità di inserirsi nel tessuto collaborativo del gruppo. Non si tratta banalmente di “piazzarsi” e di trovare qualcosa da fare, ma piuttosto di mettere in sintonia la propria essenza con il campo del gruppo; di collocarsi esattamente lì dove in questo ciclo presente possiamo manifestarci; di imparare a svolgere quella funzione al meglio delle nostre possibilità.
Non esiste un posto migliore e uno peggiore e nemmeno uno di maggior valore dell’altro. Ma esiste il nostro posto, quello più corrispondente al nostro momento e quello che davvero ci spetta e ci chiama. Avviene allora un passaggio di individuazione di noi come servitori, forse un primo passaggio a cui ne seguiranno molti altri, in una catena ininterrotta di espansioni di coscienza e di intensificazione dell’esperienza della responsabilità. Quando abbiamo la sensazione di non essere al posto giusto o sentiamo che una funzione si sta esaurendo o anche qualora coltivassimo il desiderio di un certo compito, c’è un metodo che offre buone probabilità di soluzione: deporre la nostra domanda sul cuore, collegare il nostro cuore a quello della Comunità e attendere con la fiducia che ci arriverà proprio ciò che è più in sintonia con la nostra anima.
Può essere utile identificare anche alcuni possibili ostacoli alla percezione del compito:
- Restare identificati in competenze precedenti o ruoli già svolti
- Senso di inadeguatezza e di insicurezza
- Il confronto con gli altri, che offusca la visione
- L’esitazione verso nuovi investimenti di tempo ed energia
- Temere che da quello che andiamo a fare non ci arrivi un “ritorno” adeguato
- La credenza che qualcun altro occupi il posto che spetta a noi, credenza che è sempre un’illusione
Laddove l’autoconsapevolezza ce lo consente, un modo appropriato per scoprire il nostro posto è di partire dal riconoscimento delle qualità e capacità che ci caratterizzano o che sentiamo di avere come potenzialità: si passa così dal dominio delle forme a quello dei valori sottili, dal reame della quantità a quello della qualità, di cui le opere visibili saranno espressione.