Non è ciò che facciamo o l’ambito in cui lo facciamo, che determina se si tratta di volontariato o di servizio, ma solo la chiarezza delle motivazioni e dei moventi: sarà pertanto solo nell’intimo della nostra coscienza che potremo stabilire quale è la nostra posizione.
Le parole che seguono, tratte dal libro “La via del Servizio” (in via di ristampa), puntano a dare degli strumenti per chiarire a noi stessi la natura della nostra stessa aspirazione ad operare per un bene più ampio che non il nostro strettamente personale.
Perché chiarirlo? Lungi dalla tentazione (brutta tentazione!) di voler attribuire a noi stessi un’immagine basata su un presunto valore a priori di ciò che facciamo – più “bravi” se riteniamo di essere in un ambito di servizio, meno “evoluti” se ci muoviamo nel volontariato – conoscere la differenza tra questi due stati e modi può avere il dinamizzante effetto di stimolare la nostra consapevolezza. Questa, a sua volta, nutrirà lo svolgersi di passaggi di maturazione interiore, incrementando l’efficacia della nostra opera.
La distinzione tra volontariato e servizio, distinzione quindi certamente utile e necessaria, può tuttavia prestare il fianco a classificazioni approssimative e superficiali, basate più su aspetti esteriori, legati al fare, che non sull’essenza dell’azione.
Non è ciò che facciamo o l’ambito in cui lo facciamo, che determina se si tratta di volontariato o di servizio, ma solo la chiarezza delle motivazioni e dei moventi: sarà pertanto solo nell’intimo della nostra coscienza che potremo stabilire quale è la nostra posizione.
Di fatto, se la distinzione tra volontariato e servizio è molto precisa come concetto e basa su criteri altrettanto precisi, la linea di separazione tra questi due aspetti diversi risulta molto sfumata quando si tratta di viverne l’esperienza. Il più delle volte accade che passiamo dal volontariato al servizio in modo graduale e corrispondente all’espansione della nostra coscienza e al nostro grado di consapevolezza.
In pratica, siamo noi stessi che apriamo di fronte a noi la via del nostro servizio, passo dopo passo, comprensione dopo comprensione. Fino al punto in cui noi SIAMO QUELLA VIA perché questa coincide esattamente con ciò che profondamente siamo nella nostra coscienza.
Ricordo con un sorriso i tempi in cui credevamo che lavorare in Comunità fosse di certo servizio, mentre contribuire al bene comune in modi più immediati, come risposta alle necessità esterne, fosse “solo volontariato”. Purtroppo le cose non sono così semplici da definirsi.
Anche in Comunità, luogo in cui è di centrale importanza la consapevolezza volta allo sviluppo dell’autocoscienza, molto spesso le persone che vengono a “fare servizio”, cioè a svolgere un qualche tipo di lavoro, lo fanno con uno spirito di volontariato, semplicemente perché la tensione ad aprire una linea di contatto interiore con la loro anima non è ancora sufficientemente presente.
Quando invece il punto di partenza è la propria coscienza e l’aspirazione è quella di una sua espansione, l’azione, che esteriormente resta esattamente la stessa, diventa anche “azione interiore” che produce “effetti interiori” in termini di accensione di faville di autocoscienza e di visione più espansa e più sfaccettata del nostro essere nel mondo.
Si apre allora una lunga fase in cui emergono vivi i due poli, me stesso e il mio campo di servizio; questo porta a una dualità, vissuta spesso anche come tensiva, tra lo sguardo rivolto verso il nostro mondo interno e lo sguardo sulle necessità esterne a cui ci sentiamo chiamati a rispondere in modo attivo. Questi due mondi, interno ed esterno, dovrebbero essere in armonia, e nei momenti in cui è davvero così sperimentiamo la gioia di servire. Ma sappiamo bene che l’armonia non è che il risultato positivo di uno stato di conflitto: vanno perciò accettati e utilizzati anche i molti momenti in cui ci sembra che il nostro “fare” non favorisca uno stato dell’essere vissuto come appagante.
Sarà dall’accettazione serena delle piccole o grandi crisi tra noi e il nostro lavoro, e soprattutto dalla loro utilizzazione, che il nostro servizio si farà sempre più bello e più arricchente, nutrendo contemporaneamente il fiorire della coscienza.
Mano a mano che questo avviene, e mano a mano che la “preoccupazione di noi stessi” va a sfumarsi, ci spostiamo verso un terzo stadio, dopo quello del volontariato e del servizio: quello del Servizio.
Il Servizio, che è esprimibile in parole semplici come uno stato dell’essere così pienamente realizzato da consentire di “scordarsi di sé” in modo spontaneo e naturale, è quello a cui ogni anima tende: anima, e non personalità, nel senso che di certo non è l’ambizione di tale realizzazione che la rende possibile. Anzi, tutto il contrario: è quando le tante voci che reclamano le loro esigenze si sono sufficientemente spente dentro di noi, che possiamo mettere noi stessi al Servizio di una Volontà e di un Proposito che trascendono anche la nostra stessa aspirazione.
Come possiamo facilmente comprendere, la via è lunga, ma possiamo anche essere certi che si tratta di una Via di Gioia e di Bellezza!
Marina Bernardi