“Il servizio è l’effetto spontaneo del contatto con l’anima. Questo contatto è così preciso e stabile che la vita dell’anima può fluire nello strumento che è costretta a usare sul piano fisico. E’ il modo in cui la natura dell’anima può manifestarsi nel mondo delle vicende umane. Il servizio non è una qualità o un’azione, non è un’attività per cui si debba lottare strenuamente, né un sistema per salvare il mondo. Questa distinzione deve essere chiaramente compresa, altrimenti si falsa tutto l’atteggiamento verso questa importantissima dimostrazione di successo evolutivo. Il servizio è una manifestazione di vita”.
Si direbbe proprio che il brano del libro “La via del servizio” che corrisponde a questo mese, e che era stato programmato già mesi fa, calzi a pennello con la situazione che stiamo vivendo: una perfetta sincronicità!
Ormai sappiamo bene che se “il servizio è l’effetto spontaneo del contatto con l’anima” uno dei modi par arrivare a realizzare quel contatto è proprio il servizio stesso, che diventa così sia conseguenza che causa. Il servizio è dunque un temporaneo strumento per accelerare quel contatto, “agendo come se” fossimo già anime realizzate.
Credo che ognuno di noi, in un momento o nell’altro, si sia chiesto: “Sto davvero servendo come lo farebbe l’anima? Oppure, senza accorgermene, il mio servizio è diventato solo un fare della mia personalità, un rispondere a motivazioni che non sono davvero quelle dell’anima?”
Poiché il servizio comporta un’azione che si svolge prevalentemente (perché esiste anche l’azione interna) nel mondo delle forme, esso tende a risentire di tutti i meccanismi tipici di quel piano: comportamenti automatici, mancanza di senso delle proporzioni, attaccamenti a certe modalità, dubbi, fretta, compulsioni varie… In genere tutti questi condizionamenti sono ancora più presenti proprio in coloro che da molto tempo si dedicano a un compito di servizio, mentre l’intento della risposta all’anima è più vivo in coloro in cui quest’aspirazione è più recente.
Così come questo tempo di interruzione delle attività ordinarie può essere utile a ogni persona per rivedere e riconsiderare il proprio modo di vivere, lo è ancora di più per il servitore per rivedere e rinnovare il proprio modo di servire.
Se la vita sociale in genere è soggetta a routine e circuiti automatici di azione, questi sono ancora più forti nella vita di gruppo: proprio per poter collaborare si sono dovuti costruire ritmi, modalità, procedure a cui tutti aderiscono per necessità di integrazione, ma che nel tempo sono diventati così forti che sembrano immodificabili, pena uno scompaginamento dell’integrazione del gruppo.
Ecco che la sospensione, completa o parziale, delle attività di gruppo ordinarie e dei nostri compiti individuali, o anche solo la necessità di doverci inventare modi diversi di svolgerli, ci sta venendo incontro per ri-calibrare anche la nostra vita di servizio; in senso ancora più profondo, per ri-verificare il nostro rapporto col servizio e chiederci se esso, oggi, corrisponde con il nostro intento di vivere la vita dell’anima attraverso di esso.
Sul sentiero spirituale uno dei grossi punti di comprensione e di conseguimento, ma anche di sfida, è – ed è stato in tutte le epoche – il rapporto tra spirito e materia. Per sua stessa natura la realizzazione spirituale comporta un graduale distacco dal mondo delle forme, una capacità di astrarsi, di tirarsi fuori dalle maglie di quel mondo, in modo tale che la nostra identità profonda ne sia gradualmente libera e non dipenda da nessuna circostanza esterna. Il che non vuol dire non avere a che fare con le forme, che, anzi, se così fosse diventeremmo degli esseri inefficaci e impotenti, ma di regolare il rapporto con quel mondo in modo che il nostro spirito possa volare libero in spazi più sottili e più vasti. Non è la quantità delle cose che facciamo che ci avvicina di più all’anima, ma quanto riusciamo a stabilirci in questo campo di libertà interiore, che favorisce il contatto e lo scambio con molti esseri diversi e a molti livelli; è la capacità di coltivare un pensiero ampio e creativo; e il saper incidere dei solchi nuovi e positivi nello spazio invisibile.
Credo che in molti abbiamo visto questo tempo di isolamento e di sosta come una possibilità per sentirci più liberi dai circuiti di azione usuali, proprio per dedicarci di più alla dimensione interiore della vita di servizio.
In altre parole, attraverso dei simboli conosciuti e che rendono l’idea, poter essere più Maria che Marta: più silenzio, più calma, più tempo per pensare, per leggere, per studiare, per meditare, per contemplare…
Ci riusciamo?
Personalmente mi sono accorta che tendevo a verificare “la mia Maria” attraverso i criteri di Marta: “Cosa ho fatto oggi? Quanto ho meditato? Cosa ho imparato? Ho usato bene questa giornata?” e così via, per arrivare a fine giornata a non essere quasi mai soddisfatta dell’uso del mio tempo. Dopo un po’ di giorni mi sono accorta che avrei voluto vivere Maria ma mi trascinavo dietro i criteri di valutazione di Marta, che così continuava a interferire con Maria, limitandone le possibilità… Marta, Marta… Invece si tratta di parametri di valutazione molto diversi e, se non ne siamo consapevoli, quelli più “frequentati”, sia individualmente che collettivamente, tendono a predominare.
Viene poi il controllo, il bisogno di controllo da parte della mente: è giusto questo isolamento? Quanto durerà? Cosa farò dopo? Cosa cambierà? E se nulla cambiasse? Per la nostra mente, addestrata a prevedere, pianificare, tenere le redini, è duro stare in una situazione in cui non possiamo sapere nulla di preciso e dobbiamo vivere alla giornata, con quello che il momento ci presenta.
E che dire del bisogno di essere certi che i nostri punti di riferimento, quelli conquistati in tanti anni e tanti sforzi – anche quello del gruppo – non si dissolvano? Questo timore ci porta a voler per forza trovare dei sostituti, qualcosa che ci faccia sentire che tutto permane saldo come prima, e su questo ognuno si ingegna con le sue modalità alternative, che a volte diventano anche più congeste di quanto sperimentiamo nella vita normale.
Eppure, per incontrare Maria, dobbiamo acquietare Marta, non c’è altro modo. Il “troppo pieno” di tutto, anche di stimoli che consideriamo “buoni ma troppi”, è un condizionamento che abbiamo sviluppato essendo stati immersi per decenni nel mondo della materia; questa, per sua inerente natura, tende a moltiplicarsi e ad estendersi a riempire ogni spazio. E noi esseri umani ne subiamo la forza proattiva, piegandoci alla sua finalità inconscia, anziché agire la nostra limitazione cosciente. Perciò è solo con una decisione consapevole che potremo arginare l’innata tendenza della materia a propagarsi: facendo un passo indietro e collocandoci più vicini agli spazi luminosi e insondabili della “nube di cose conoscibili” e non ancora conosciute.
Ecco, proviamo a entrare nell’ordine di idee che non è il virus, non è il governo, che ci confina così e ci costringe a fare a meno dei nostri punti di certezza: è invece la nostra anima che cerca, chiede, si aspetta di riversarsi di più nella nostra vita. E che non si fa scappare questa opportunità!
Allora la vera questione è: come imparare a stare in quei momenti “vuoti”, in quel silenzio, con una pienezza interiore di senso, di valore e di vita?
Come finora abbiamo fatto affidamento prevalentemente sulla materia, anche quella del nostro pensiero condizionato, si tratta ora di fidarci che l’aura che si sta creando nelle nostre case, nel nostro ambiente e nel mondo, sta già riequilibrando rapporti – tra esseri umani, tra noi e la natura, tra noi e il tempo. E che da quest’opera gentile e quasi impercettibile di ri-equilibramento, scaturiranno, a tempo debito, forme nuove e più adatte a noi.
Per ora si tratta solo di “stare”, anzi, di “stare e amare”, con la certezza che questo è ciò a cui la nostra anima e quella dell’umanità agognavano per riuscire a ricavarsi uno spazio nelle nostre vite affaccendate.
Marina Bernardi
Il Servizio – La via maestra per la realizzazione spirituale
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