È la sfida di riuscire a coltivare e a mantenere una duplice coscienza, di essere presenti a se stessi mentre si è nel contempo soggetti dell’azione, con una parte della propria coscienza radicata nell’essere e un’altra impegnata nel divenire. Senza che la seconda obliteri o assorba la prima.
All’interno del modello psicosintetico, uno degli aspetti dell’essenzialità può essere ravvisato nel processo stesso della disidentificazione/autoidentificazione. In tale processo la coscienza si stacca – o meglio si distingue – da tutti i vari e molteplici aspetti, attributi, compiti e funzioni della personalità, e si riporta al centro, riconoscendosi nella sua identità essenziale, come un centro di pura autoidentità. Avvicinandosi così il più possibile in coscienza alla sua essenza profonda, scevra da ogni attributo e qualificazione esterni, e come tali accessori e non essenziali.
All’essenzialità di ciò che siamo si arriva molto semplicemente per via “negativa” o apofatica, sfrondando cioè tutto ciò che non siamo, ma che solo abbiamo, o facciamo. È un passaggio dal molteplice all’Uno, dal fare e avere all’essere, dal divenire e funzionare all’esistere, dalle maschere e apparenze delle varie subpersonalità e ruoli che ricopriamo a quell’essere senza volto che le usa per manifestarsi.
Vista in questa prospettiva, l’essenzialità può essere quindi intesa come il ritorno a se stessi, come “il ricordo di sé”, nel linguaggio di Gurdjieff.
Se tutto però si riduce a un esercizio di autoidentificazione fatto sporadicamente, non si arriva lontano. La sfida che lancia la Psicosintesi è molto più ardua, ma anche avvincente: è quella di cercare di mantenere viva e accesa questa autocoscienza centrale dell’essenza, mentre con la personalità si è impegnati a interagire e a operare fattivamente nel mondo esterno, nel mondo delle forme, che per sua natura e funzione di essenziale non ha ovviamente nulla.
È la sfida di riuscire a coltivare e a mantenere una duplice coscienza, di essere presenti a se stessi mentre si è nel contempo soggetti dell’azione, con una parte della propria coscienza radicata nell’essere e un’altra impegnata nel divenire. Senza che la seconda obliteri o assorba la prima.
Nella metafora del ciclone, è la capacità di mantenersi al suo centro, nel cosiddetto “occhio”, mentre tutt’intorno si agitano i dinamismi della vita personale, propria e collettiva. Immagine che equivale al detto latino spesso citato da Assagioli del “festina lente”, affrettati lentamente, a proposito del Wu-Wei.
È un modo appunto di mantenere l’essenzialità viva e presente al centro di sé, mentre in periferia la personalità opera nella sua necessaria articolazione, pluralità e dispersione.
Concludo con questa incisiva affermazione di Assagioli, che testimonia con chiarezza qual era la sua scala di valori in relazione all’essere e al fare: “Non essere dominato dal lavoro, dal “servizio” – dominarlo. Prima Essere; poi fare”.[1]
E andando ancora oltre, ci si può appunto proporre di arrivare ad “essere nel fare”. Laddove l’essenza rimane viva, attiva e pulsante nel cuore dell’attore, e della sua azione.
Vittorio Viglienghi
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[1] Archivio Assagioli Online – AS – ID Doc. 15757