Nella chiesa di San Domenico a Palermo, dove si trova la tomba di Giovanni Falcone, ho trovato un biglietto: “Dear Giovanni, I will write in English, because my Italian is not so good. However, I want to thank you for inspiring me to study law. I have been very fascinated by your story and admire your courage and your drive to fight for what is right. You are a hero for your people but also for people abroad, like me. Thank you for being a great human being. Jessenia”.

L’eredità di Falcone ha molteplici volti: il “senso dello Stato”, l’impegno nella “cooperazione internazionale”, il maxiprocesso alla mafia come “risultato” storico: la dichiarazione della mafia come fenomeno criminale, ecc. Ma questo foglietto punta ad un’eredità ontologica, ad un’altra eredità. Che c’era qualcosa nella qualità del tipo di essere umano che era, che possiamo incorporare per noi stessi.

Questa, la sua più grande eredità, è racchiusa in una frase. Falcone si identificava talmente in essa da non separarsene mai, tanto da portarla sempre con sé, nel suo portafoglio: “Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana. J.F. Kennedy”. Per cogliere il “proprium” dell’eredità ontologica di Falcone, bisogna penetrare questa frase. Essa risponde alla domanda “che cosa significa essere un uomo?”. Risposta: essere – pienamente – un uomo, per Falcone, è andare fino in fondo col proprio dovere. Le due cose sono in rapporto: un uomo è definito, distinto, sulla base di questo carattere determinante.

Ecco il filo unitario per leggere la frase, che poi si dispiega in tre volti, che corrispondono alle tre dimensioni di base che caratterizzano l’analisi dell’esistenza: il rapporto dell’ uomo con il mondo (Umwelt), con gli altri uomini (Mitwelt) e con se stesso (Eigenwelt). Tre ritratti del “dovere”, tre volti del suo messaggio, su ciò che significa essere umano. Rimandano a una scelta su che tipo di uomo essere:

a) Primo, questo dovere riguarda un intimo rapporto col mondo storico. La differenza tra Alexander Supertramp e Giovanni Falcone è precisamente questa: il primo è autentico al di là del mondo, il secondo nel Soltanto nel mondo, nel rapporto con esso e con la storia, si dà (si testa) il valore degli uomini e delle opere. La sua lezione è che un uomo non si sottrae dalla storia, non cerca il suo compimento al di là di essa: “fa la sua parte”.

b) Il secondo aspetto si richiama a quel “senso dello Stato” che, interiorizzato, è la sorgente di una cultura per prevenire la sopraffazione e l’ingiustizia. Senso dello stato, come necessità di regole della vita collettiva, che vengono sopra quelle della famiglia, del clan, degli interessi corporativi. Ciò rimanda all’idea di un futuro che funziona per tutti. È in questo senso che la lotta alla mafia è trasformazione del mondo, perché l’ambito del penale – diceva Falcone – riguarda il mondo da creare, l’ “essere”. Il suo “dovere” implicava l’ “essere” di un mondo in cui non fosse tollerabile la sopraffazione e l’ingiustizia.

c) Il terzo aspetto, ontologico, dell’eredità di Falcone (e degli altri) è implicito e radicale: non tanto l’aver dimostrato che la mafia era battibile, ma l’aver dimostrato di poter essere quella (stessa) possibilità al di là delle conseguenze, ostacoli, pericoli e pressioni. Per cui la loro lezione ultima riguarda il potere: la forza di essere. Dopo la loro morte, nessuno può dire – se non in malafede – che qualcosa “non poteva essere” per delle pressioni, perché loro sono stati al di là delle pressioni. In questo senso Falcone e Borsellino non sono “modelli”, ma sono – piuttosto – un’esperienza universale umana, qualcosa (una scelta) disponibile per tutti. È questo, a mio avviso, il senso dell’ultimo discorso di Borsellino: “Falcone vive”.

Ciò che vive è: questa possibilità, che l’essere sia sopra l’avere.

Nella frase di Kennedy si dice “un uomo fa quel che è suo dovere fare”. Questo è l’essere, ossia ciò che ognuno rappresenta. E continua “quali che siano le conseguenze”: questa è la dimensione dell’avere, della sopravvivenza, del non-essere. Qui c’è un rapporto preciso: “l’essere sopra l’avere”. E infine, non solo “questa è la base di tutta la moralità umana”, ma, nel momento in cui arriva a toccare e muovere l’essere dell’altro – come testimonia il foglietto di Jessenia – diventa la base dell’autentica leadership.

Mauro Ventola