Tutto accadde su una strada.
Su una strada un bambino fu abbandonato a morire; su una strada un giovane uccise un uomo più anziano; su una strada l’omicida fu sfidato da un mostro con corpo di leone e testa di donna a risolvere un enigma: l’uomo vinse e divenne re.
Su una strada, anzi su molte strade, lo stesso uomo trascinò i suoi passi di vecchio cieco appoggiato ad un bastone, con la sola compagnia della figlia.
La strada non è solo una metafora della vita, ma anche simbolo del tempo che procede e dell’identità che si trasforma pur rimanendo una. Un uomo è se stesso eppure è sempre diverso. Ed è nel ‘900 che prende forma il “nuovo Edipo” che supererà la maschera arcaica, sventurata e sofferente di Sofocle. Questo Edipo è un eroe, non più in lotta contro il destino, ma contro una parte di se stesso, una parte ignota che lo attrae irresistibilmente. Egli si trasforma, infatti, in un personaggio difficile e tormentato: un uomo pienamente moderno, dalla personalità oscura, un intreccio di forze implacabili davanti alle quali la volontà consapevole appare disarmata.
Edipo diventa, definitivamente, il mito fondante della diversa visione dell’uomo e di un suo famoso “complesso”: ora la colpa è “necessità” e il Fato si trasforma nell’Inconscio.
L’Antefatto
La tragedia di Sofocle Edipo re viene messa in scena per la prima volta tra il 430 e il 420 a.C. ad Atene e fa parte con altre due tragedie, Edipo a Colono e l’Antigone, del ciclo tebano. La tragedia prende le mosse dalla grave pestilenza che falcidia la popolazione di Tebe durante la reggenza di Edipo.
Edipo è il figlio del re di Tebe, Laio e di sua moglie Giocasta. Dopo il suo concepimento un oracolo rivela al sovrano che il nascituro è destinato ad uccidere suo padre e giacere con sua madre. Laio ordina quindi a un servo di uccidere il neonato, ma, impietosito, il servo decide di affidare il bambino ad un pastore che a sua volta lo cede al re di Corinto, Polibo, e a sua moglie Peribea, che non potevano avere figli. Edipo cresce quindi nella convinzione che i sovrani di Corinto siano i suoi veri genitori e quando l’oracolo gli ripete la predizione fatta in precedenza a Laio, Edipo, convinto di rappresentare un pericolo per Polibo e Peribea, parte da Corinto e si dirige a Tebe. Sulla strada incontra un carro, si tratta di Laio, che si sta dirigendo a Delfi per consultare l’oracolo. Nessuno dei due uomini vuole lasciare il passo all’altro così ne nasce una disputa che si trasforma in lite e Laio rimane ucciso da Edipo. La prima parte della profezia si è avverata.
Edipo giunge a Tebe, dove la popolazione è tormentata dalla Sfinge, mostro con la testa di donna, un corpo di leone con due grandi ali che ogni anno esige in tributo giovani vite. La Sfinge infatti propone ai giovani tebani degli indovinelli a cui è impossibile rispondere e i malcapitati pagano la loro ignoranza con la vita. Edipo si offre volontario per sfidare il mostro. La Sfinge chiede a Edipo chi sia quell’essere che cammina all’alba con quattro gambe, poi a mezzogiorno con due e infine al tramonto con tre. Edipo risponde correttamente: si tratta dell’uomo.
Così la Sfinge sconfitta muore, gettandosi dalla rupe da cui dominava la città ed Edipo viene nominato re di Tebe (infatti era già giunta la notizia della morte di Laio) e sposa la regina Giocasta. Anche la seconda parte della profezia si è avverata. Da questa situazione muove l’Edipo re di Sofocle.
La Tragedia
A Tebe infuria la peste ed Edipo ha inviato Creonte, fratello di Giocasta, a Delfi per interrogare l’oracolo. Creonte torna quindi a Tebe recando con sé notizie funeste: l’assassino di Laio vive ancora tra le mura della città. Edipo, che non è a conoscenza delle circostanze della morte di Laio, chiede delucidazioni a Creonte che racconta di come il precedente sovrano fosse stato attaccato da un gruppo di briganti sulla strada per Tebe. Edipo ordina che il responsabile venga trovato e bandito da Tebe e chiede a Tiresia, vecchio indovino cieco, di svelare la identità del colpevole. Tiresia, tuttavia, si rifiuta, sostenendo che il suo vaticinio potrebbe portare conseguenze ancora più atroci. Edipo e Tiresia si scontrano verbalmente con toni molto accesi finché il vate non riferisce che proprio Edipo è l’assassino che si sta cercando. Edipo non crede a una parola di quanto detto da Tiresia e comincia a sospettare che Creonte voglia prendere il suo posto sul trono e abbia preso accordi con l’indovino per scacciarlo da Tebe. Edipo si confronta allora con Creonte, il quale si difende rivendicando di non avere nessun interesse a tradire il re. I due uomini vengono quindi raggiunti da Giocasta che, per placare Edipo, gli assicura che spesso gli indovini danno responsi sbagliati. Giocasta aggiunge però dei particolari sulla strada in cui si trovava Laio ed Edipo, che riconosce quel punto come luogo dove ha ucciso un uomo e ritrova nella profezia raccontata da Giocasta echi di quella che gli era stata fatta a Corinto, decide di approfondire le indagini. Nel frattempo arriva un ambasciatore di Corinto e informa Edipo della morte di Polibio e di essere quindi, per eredità, il nuovo re di Corinto. L’ambasciatore non è un uomo qualsiasi, ma proprio quel pastore che tanti anni prima aveva affidato il figlio di Laio a Polibio: assicura così a Edipo che Peribea non è la sua madre naturale. Quando l’ambasciatore riferisce che il neonato gli è stato affidato dal servo di Laio, Edipo fa chiamare il vecchio servitore che ancora vive a Tebe. Giocasta, che ha compreso l’inganno del destino che beffardo si è preso gioco di loro, cerca, di convincere Edipo ad abbandonare l’esigenza di colmare lacune del passato. Ma le sue suppliche restano inascoltate, allora Giocasta si allontana e, sconvolta dalla scoperta, decide di porre fine alla sua vita. Il servo di Laio, a colloquio con Edipo, riconosce l’ambasciatore come il pastore a cui ha affidato il neonato ma si mostra reticente a voler proseguire il racconto. Incalzato da Edipo rivela infine che Laio gli aveva affidato il neonato affinché lo uccidesse, ma mosso da pietà il servo aveva affidato il bambino al pastore. Edipo si rende così conto di esse lui il figlio di entrambe le profezia, di aver ucciso suo padre ed aver giaciuto con sua madre come il destino aveva decretato dovesse compiersi. Esce quindi di scena disperato.
Scopriamo poi che Edipo, dopo aver trovato una madre, Giocasta, morta impiccata, ha usato le fibbie del vestito di lei per accecarsi. Edipo supplica allora Creonte, destinato a diventare il nuovo reggente, di esiliarlo da Tebe, in quanto per colpa sua l’ordine naturale è stato sovvertito e la peste ne è la conseguenza. Saluta quindi le figlie Antigone e Ismene, destinate anche esse a sventura come i due fratelli maschi Eteocle e Polinice in quanto tutti nati da una unione aborrita dagli dei e dagli uomini. La pena di Edipo muta, sappiamo, nell’ Edipo a Colono; lì egli viene cacciato in esilio e si aggira vagando da miserabile fuori dai confini di Tebe. Un uomo del genere non può rimanere dove sono gli altri uomini, dato che la sua contaminazione come un veleno si sparge su di loro. Un uomo contaminato si caccia via, come un capro espiatorio, un pharmakòs che allontanandosi dalle mura porta con sé tutto il male di cui soffra la collettività. Nel momento in cui Edipo riconosce la sua identità e scopre se stesso, scopre anche di essere una persona di cui nessuno può definire la natura. L’enigma è risolto, e quella di Edipo è appunto una storia impossibile che si rivela reale. Questo uomo sventurato e colpevole, ma più sventurato che colpevole, non è soltanto il parricida e l’incestuoso. Nella tragedia di Sofocle, quanto meno, è colui che va alla ricerca della sua identità risalendo all’indietro sino a dove la memoria può arrivare e anche oltre, sino alle radici oscure della sua vita. L’unico fra tutti. Come scritto nel libro dell’Esodo °…le colpe dei padri ricadranno sui figli sino alla terza, quarta generazione°, Edipo in realtà sta scontando proprio questo Fato.
Epilogo
Due sono le principali tematiche sottese alla tragedia, da un lato il pericolo che la conoscenza può comportare per l’individuo e dall’altro l’intrinseca debolezza dell’uomo che, lungi dall’essere padrone delle proprie azioni è indirizzato a venir dominato dal destino e dal caso.
L’opera evidenzia insomma una tragicità interna all’esistenza umana, per sua natura tesa all’azione logica, alla ricerca di nessi causali tra gli eventi, ma costretta in ultimo a soccombere a mero incidente. La convinzione di avere sotto controllo la propria vita e le conseguenze delle proprie azioni non è insomma altro che un’illusione. La situazione in cui viene a trovarsi Edipo è quindi singolare: la sua intera vita ruota attorno al tentativo di evitare il destino atroce che gli è stato predetto. Edipo cerca l’esilio, si allontana da Corinto, dai suoi cari e dal suo ruolo di principe per evitare di macchiarsi di una colpa che non è altro che un vago miraggio. Mette la sua intelligenza al servizio della volontà, ma l’intelligenza non può nulla contro la sorte. La beffa dell’Edipo re è proprio questa: Edipo, credendo di allontanarsi da colpe che non ha ancora commesso, in realtà sta inconsapevolmente adoperandosi per mettere in atto i disegni del destino. Pagherà a caro prezzo colpe che credeva di avere evitato, colpe che ha commesso al di fuori di ogni di ogni consapevolezza. Nella tragedia assistiamo quindi ad un movimento dettato dalla logica che si rivelerà inutile e dannoso ed una curiosità, una ricerca di conoscenza che ha le stesse deleterie caratteristiche del precedente movimento. Paradigmatica allora la punizione che Edipo si auto infligge nella conclusione del dramma: non solo l’esilio, necessario a ripristinare l’ordine turbato, ma anche l’accecamento. Privarsi della vista significa allora privarsi della curiosità, della tensione alla conoscenza. Edipo voleva “vedere”, ma la visione, la scoperta, hanno portato alla luce la futilità della sua intera esistenza, che ha avuto modo di svilupparsi grazie a un inganno, quello del pastore che lo ha salvato, e di muovere verso il compimento dell’infausta predizione dell’oracolo grazie ad un altro inganno, quello dei sovrani di Corinto che non gli hanno mai rivelato la sua vera provenienza. Malgrado sia dominata da una inesauribile sete di conoscenza, la vita di Edipo è segnata dalla violenza, dall’inganno, dall’errore e dal movimento vano: l’eroe è fondamentalmente ignorante. Proprio da questa ignoranza, scaturisce la tragicità della vicenda di Edipo. Per lo spettatore moderno, infatti, ma anche per lo spettatore ateniese, Edipo non è responsabile delle proprie colpe. Oltre l’orrore Edipo è una vittima di quell’entità, il Fato, a cui nella mitologia greca anche le divinità devono sottomettersi. Ma la società di cui fa parte il re di Tebe non è quella in cui Sofocle scrive le sue tragedie, è una società più antica basata sui vincoli dell’onore e dell’ordine sociale e naturale più che sulla morale. Edipo allora è disonorato e, peggio, è la causa del sovvertimento della vita dei Tebani. Uccidendo il padre e giacendo con la madre, è andato contro le regole della convivenza del nucleo familiare e di quelle della famiglia con la collettività, è diventato un pericolo per l’intera comunità di appartenenza e se ne deve allontanare. Una prima manifestazione arcaica di ordine sociale quindi, che Edipo assume su di sé così come fanno tutti coloro che lo circondano. Nessuno dei personaggi di Sofocle si fa avanti per contestare il destino che attende Edipo, nemmeno Edipo stesso: non sarebbe possibile, non sarebbe nemmeno immaginabile in un mondo pre-morale. L’unica possibilità allora è l’esilio, e Sofocle, così come i suoi spettatori, riconoscono l’ingiustizia e l’inevitabilità di questa conclusione ed è in questo riconoscimento che, in ultima analisi, risiede la tragedia.
Anche il tema dell’amore e del rapporto tra maschile e femminile ha una sua inevitabile tragicità, segnata dall’incapacità di superamento della polarità. Questo perché il Fato (l’inconscio) impedisce una conoscenza autentica.
di Pasquale Morla